Interventi esterni e futuro della difesa europea

Pictoquote: "Gli eserciti europei sono stati definiti "eserciti bonsai": sembrano veri, ma sono ridotti a versioni in miniatura."
Quest'ultimo periodo ha dato di che riflettere a coloro che sono impegnati in "attività di stabilizzazione" all'estero. Un anno fa assistevamo alla caduta di Kabul e al drammatico ritiro delle forze statunitensi e internazionali dall'Afghanistan. Vent'anni di presenza, un chiaro mandato delle Nazioni Unite, decine di migliaia di truppe internazionali e oltre mille miliardi di dollari non sono riusciti a produrre un governo afghano sostenibile e legittimo. Curiosamente, l'ultimo presidente del paese, Ashraf Ghani, è stato l'autore di uno dei libri fondamentali sulla "costruzione dello Stato". Eppure….
Anche se l'Afghanistan non fa più notizia, la situazione per la sua gente è disastrosa. Nell'ultimo anno i talebani non hanno dato alcun segno di moderazione, al contrario: a tutte le ragazze, nonostante le precedenti promesse, è stato vietato l'accesso all'istruzione, una vasta fetta del paese è nella morsa dalla fame (il 70% della popolazione) e molti afghani vivono nella paura o in esilio. È comprensibile che i talebani non siano stati riconosciuti ufficialmente da alcun governo, nemmeno dal Pakistan o dal Qatar. Nel frattempo, il popolo afghano paga a caro prezzo l'isolamento del paese: i livelli di aiuto umanitario sono esigui rispetto alle esigenze.
Per pura coincidenza, il governo francese ha annunciato il ritiro dell'ultimo soldato francese dal Mali proprio il giorno dell'anniversario della caduta di Kabul. Tale partenza era diventata inevitabile viste le decisioni adottate dal governo militare del Mali.
La situazione è complessa, ma anche in questo caso siamo costretti a riconoscere che le tendenze nella regione, dopo oltre dieci anni di impegno internazionale, sono in peggioramento: il terrorismo dilaga, gli Stati sono deboli e le popolazioni civili mancano di sicurezza e dei servizi di base. E questo nonostante l'attenzione e le risorse mobilitate per sostenere un processo guidato dai paesi del G-5 Sahel e un "sussulto" civile annunciato lo scorso anno.
Il governo del Mali si rivolge sempre di più al Wagner Group, ma si tratta di una mossa destinata al fallimento: non farà che esacerbare le tensioni sociali esistenti e privare lo Stato di risorse preziose, e non darà alcuna risposta sostenibile ai problemi di sicurezza del paese, aumentando invece il rischio di dipendenze nocive.
Dalla Somalia all'Iraq o alla Libia: ogni caso è diverso. Ma l'impressione preponderante è che queste operazioni siano molto impegnative, abbiano richiesto una grande quantità di risorse e, troppo spesso, abbiano prodotto risultati deludenti.
Sia l'esperienza dell'Afghanistan che quella del Mali evidenziano le difficoltà intrinseche di simili "operazioni di stabilizzazione" esterne, il che non sorprende, considerati i precedenti storici di questo tipo di iniziative, dalla Somalia all'Iraq o alla Libia. Ogni caso è diverso per mandato, coalizione, obiettivi fondamentali, durata, risorse ecc., ma l'impressione preponderante è che queste operazioni siano molto impegnative, abbiano richiesto una grande quantità di risorse e, troppo spesso, abbiano prodotto risultati deludenti.
Gli attori esterni possono fornire una sicurezza temporanea, o sostenere lo "sviluppo di capacità", ma solo le persone del posto possono fare politica e far funzionare le istituzioni.
Per quali motivi? Esiste un'ampia letteratura sul perché succede questo. Una ragione fondamentale è che gli interventi a guida esterna non possono fornire l'ingrediente essenziale necessario: una soluzione politica e un governo sostenibili e legittimi. Solo le forze locali possono farlo. Per loro stessa natura, gli stranieri sono, quasi inevitabilmente, visti come "l'altro", l'estraneo in opposizione al quale le forze locali si identificano e, in definitiva, resistono. Ciò valse per gli eserciti di Napoleone che si avventurarono in Spagna portando "in punta di baionetta" idee che furono prontamente respinte, proprio perché portate da stranieri. Qualcosa di simile è accaduto alla coalizione internazionale in Afghanistan, indipendentemente dalla bontà delle intenzioni e nonostante il mandato formale concordato a New York. Gli attori esterni possono fornire una sicurezza temporanea, o sostenere lo "sviluppo di capacità", ma solo le persone del posto possono fare politica e far funzionare le istituzioni.
Il secondo problema è costituito da obiettivi poco chiari e dall'abuso del mandato. È già abbastanza difficile avere successo in questo tipo di interventi esterni, ma il fallimento è quasi inevitabile se gli obiettivi non ci sono chiari. In Afghanistan, quella che era iniziata come un'operazione limitata per porre fine al governo dei talebani che avevano dato rifugio ad Al Qaeda, ossia come un'operazione antiterrorismo, si era tramutata in un'operazione molto più ampia e ambiziosa di "costruzione dello Stato", volta a costruire un governo afghano di larghe intese e responsabile, che avrebbe compiuto un deciso salto di qualità e difeso le libertà civili. L'operazione è riuscita a realizzare il primo obiettivo già nel 2001, ma mai il secondo. In effetti, gli attori esterni con le loro attrezzature sofisticate e i valori culturali loro propri non sono stati in grado di bruciare le tappe della storia e produrre un governo che in qualche modo rispettasse le norme internazionali e fosse al tempo stesso adatto alle condizioni culturali locali.
Spesso la cosiddetta "comunità internazionale" fa molto affidamento sulle élite che vivono nelle capitali, che idealmente parlano l'inglese e si sono formate in Occidente, ma il più delle volte il potere reale è nelle mani dei gruppi tribali, dei sindaci e dei capi delle milizie.
Il terzo aspetto si ricollega proprio a questo: dobbiamo essere più attenti agli interessi e alle motivazioni degli attori e delle forze locali. Spesso la cosiddetta "comunità internazionale" fa molto affidamento sulle élite che vivono nelle capitali, che idealmente parlano l'inglese e si sono formate in Occidente, ma il più delle volte il potere reale è nelle mani dei gruppi tribali, dei sindaci e dei capi delle milizie. Nelle società frammentate, le persone non sono necessariamente leali a un governo centrale nel quale non sono minimamente coinvolte ed è improbabile che i membri dei servizi di sicurezza siano disposti a rischiare la vita per un progetto di costruzione dello Stato che non considerano valido.
Dovremmo quindi rinunciare tout court e concludere che faremmo meglio a restarcene a casa? No, perché è proprio questo il dilemma centrale della politica estera. Come ha detto l'ex diplomatico dell'UE Robert Cooper: "forse il caos non vi interessa, ma il caos si interessa a voi." Non possiamo assicurare una politica funzionante, ma la sua mancanza si ripercuote su di noi. Possiamo ritirarci, ma ciò potrebbe significare più instabilità, più terrorismo, più migrazioni, ecc. Inoltre, sentiamo l'impulso umano fondamentale di voler aiutare le persone nel bisogno, dando prova di solidarietà. Ecco perché neanche l'isolazionismo può funzionare.
Dobbiamo fare nostra la lezione per cui la gestione delle crisi consiste nella creazione di uno spazio per il buon funzionamento della politica. La "titolarità locale" è un tremendo cliché, ma troppo spesso la trascuriamo.
Ciò che forse potrebbe funzionare è un approccio più selettivo per quanto riguarda gli interventi da intraprendere: una volta compiuta la scelta, è poi necessario impegnare le risorse giuste e lasciare tempo sufficiente per la loro attuazione. Soprattutto, dobbiamo fare nostra la lezione per cui la gestione delle crisi consiste nella creazione di uno spazio per il buon funzionamento della politica. La "titolarità locale" è un tremendo cliché, ma troppo spesso la trascuriamo.
Il ruolo degli eserciti dell'UE
Tutto questo è già significativo di per sé, ma va anche collocato nel contesto del dibattito sul futuro delle forze armate europee. Negli ultimi 20 anni gli eserciti europei si sono concentrati fondamentalmente su "operazioni con carattere di spedizione", proprio come quelle in Afghanistan, in Iraq e nel Sahel. Nello stesso periodo, in tutta Europa si è registrata una serie di tagli drastici e non coordinati ai bilanci della difesa (solo parzialmente annullati negli ultimi anni) proprio quando gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e altri paesi aumentavano enormemente i loro (Europa + 20%, Russia + 300% e Cina + 600%). Il divario relativo tra i paesi europei e gli altri paesi si è così drasticamente ampliato. Come ho ripetutamente sostenuto, si tratta di una questione che dobbiamo affrontare con urgenza.
Gli eserciti europei sono stati "svuotati" e sono stati definiti "eserciti bonsai": sembrano veri, ma si sono ridotti a versioni in miniatura.
L'ascesa della Cina quale importante attore militare — che va ben oltre la dimensione economica su cui la maggior parte di noi si è concentrata — colpisce particolarmente: la sua marina dispone ora di più navi di superficie della marina statunitense. Inoltre quest'estate, intorno a Taiwan, abbiamo visto quanto la Cina è pronta a utilizzare le sue forze armate per inviare segnali chiari.
Gli eserciti europei sono stati "svuotati" e sono stati definiti "eserciti bonsai": sembrano veri, ma si sono ridotti a versioni in miniatura. Per esempio, nella sua testimonianza dinanzi alla commissione per la difesa dell'Assemblée Nationale del 13 luglio, il capo di stato maggiore della difesa francese Generale Burkard si è chiesto apertamente se la combinazione tra tagli di bilancio e attenzione rivolta alla guerra asimmetrica e di spedizione non abbia messo in discussione la capacità dell'esercito francese di affrontare un conflitto "ad alta intensità" sul suolo europeo.
Ha proseguito affermando che dal 1945 la marina francese non è mai stata tanto ridotta: il numero di navi è stato dimezzato rispetto al 1990. Dal 1996 l'aeronautica francese ha tagliato il numero di aerei del 30% ed esistono notevoli lacune anche nell'esercito, in particolare per quanto riguarda l'artiglieria e le munizioni (le scorte sono impoverite a causa delle forniture all'Ucraina). Tutto ciò in uno degli Stati membri dell'UE che prende molto sul serio il suo ruolo in materia di difesa: la situazione è peggiore in Germania, Italia, Spagna, ecc.
Il punto è: cosa fare? Per che tipo di conflitti prepariamo i nostri eserciti e che genere di decisioni ne derivano in termini di postura, bilanci, addestramento, ecc.? Con questi "eserciti bonsai" non possiamo continuare a far fronte a un panorama strategico più minaccioso, che comprende avversari che utilizzano una guerra ad alta intensità. Allo stesso tempo, non possiamo far finta di essere soddisfatti dei nostri precedenti di guerra a carattere di spedizione.
Dobbiamo quindi essere disposti a riflettere bene e a fondo sulle scelte e sui compromessi che ci troviamo ad affrontare e a decidere di conseguenza. Il vero nocciolo della questione è fare questa riflessione insieme, in quanto europei.
I nostri eserciti devono essere in grado di gestire sia la difesa territoriale che la guerra asimmetrica più lontano da casa. Dobbiamo farlo nel quadro della NATO, certamente, e quasi tutti gli Stati membri dell'UE ne sono ora membri. Ma dobbiamo anche poter fare maggiore affidamento su noi stessi e dimostrare la nostra responsabilità strategica quando sono in gioco i nostri interessi in materia di sicurezza, alle nostre frontiere e oltre. Per questo motivo gli Stati membri dell'UE devono investire meglio e insieme, e cooperare molto di più nel settore della difesa.
Dobbiamo quindi essere disposti a riflettere bene e a fondo sulle scelte e sui compromessi che ci troviamo ad affrontare e a decidere di conseguenza. Il vero nocciolo della questione è fare questa riflessione insieme, in quanto europei. Le numerose proposte che abbiamo adottato nell'ambito della bussola strategica, se pienamente attuate, contribuiranno in larga misura a rafforzare il nostro impatto collettivo.
Condividendo gli insegnamenti tratti, possiamo evitare errori costosi. Mettendo in comune le risorse, possiamo ottenere maggiori risultati. Coordinandoci tra di noi, possiamo operare una specializzazione dei compiti.
Oppure possiamo illuderci e andare avanti meccanicamente, ignorando i cambiamenti nel mondo che ci circonda.